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Le interviste del Direttore: Daniele Basso

Di Andrea Rossi Tonon

Fonte: Non solo ambiente

HBI è l’acronimo di Human Bio Innovation. Da cosa è nato l’interesse verso il settore green?
Il nome Human Bio Innovation racchiude in sé i valori propri della nostra azienda: l’innovazione sostenibile al servizio dell’umanità. È con questo spirito che HBI opera ed è attiva nel suo settore. L’interesse per il mondo green nasce in primo luogo dalla sensibilità verso il rispetto dell’ambiente che il mio socio, Renato Pavanetto, ed io abbiamo avuto sin da giovani. Sicuramente questa propensione si è strutturata ed è maturata in me durante il mio percorso di studi. Dopo il liceo scientifico, ho studiato ingegneria ambientale a Padova e Trento, per poi conseguire un dottorato di ricerca sempre in ingegneria ambientale. Se guardiamo alla sostenibilità, non dobbiamo dimenticarci che essa si basa su tre pilastri: quello economico, quello ambientale e quello sociale. In HBI cerchiamo l’armonia e la sinergia di queste tre dimensioni, essendo una entità economica, che opera nel settore della green economy e che ha una forte attenzione al benessere delle persone e del territorio, di oggi e delle generazioni future.

HBI è nata come start-up nel 2016 del settore green. La mission è quella di promuovere presso le aziende ed altre realtà l’utilizzo di una cultura altamente tecnica ma al tempo stesso improntata alla sostenibilità. Emblematica in tal senso è la vostra recente invenzione in tema di trattamento dei fanghi industriali, da conceria e dei rifiuti biodegradabili. In cosa consiste il vostro brevetto? Avete altri progetti per il futuro?
La mission di HBI è quella di promuovere tecnologie sostenibili per l’implementazione dell’economia circolare. Quindi la nostra attività principale è quella di sviluppare soluzioni innovative, e per questo abbiamo siglato importanti partnership con prestigiosi atenei internazionali e centri i ricerca. È quindi evidente che l’attività inventiva rappresenti una parte fondamentale nel nostro lavoro. I nostri tre brevetti (un quarto lo stiamo depositando) si basano su soluzioni sinergiche che siamo riusciti ad identificare e ingegnerizzare. A mio avviso, il più importante dei tre è quello relativo al nostro sistema emission free, ossia a zero emissioni.

Questo rappresenta per noi un importantissimo vantaggio competitivo, perché nessuno dei nostri competitor sia diretti che indiretti può dire la stessa cosa: chi più chi meno, tutti hanno emissioni gassose che, prima di essere rilasciate in atmosfera, devono essere trattate. Inoltre, soprattutto chi propone tecnologie simili alla nostra per il trattamento dei fanghi di depurazione, deve fare i conti con gli odori sprigionati con le emissioni. Noi essendo emission free, siamo di conseguenza anche odour free. Un altro brevetto di cui andiamo fieri è quello che ci consente di essere energeticamente autosufficienti: escluse le fasi di accensione dell’impianto, a regime il sistema si auto sostenta senza il ricorso di energia elettrica dalla rete. Abbiamo certamente altri progetti: partecipiamo all’IPCEI sull’idrogeno, con l’obiettivo di produrre idrogeno bianco, e stiamo sviluppando altri upgrade per la valorizzazione dei fanghi, per esempio. Il nostro obiettivo è tendere al rifiuto zero: oggi siamo riusciti ad ottenerne una riduzione del 90%.

Nelle politiche programmatiche sia del Governo italiano che dell’Unione europea la digitalizzazione e la transizione ecologica sono considerate driver dell’economia considerate non soltanto per l’importanza che rivestono all’interno del tessuto economico ma anche per le risorse ad esse destinate. Crede che una start up come la vostra riceva da parte del Legislatore le giuste attenzioni? Qual è la ricetta (se esiste) ideale per fare in modo che in Italia una start up possa crescere ed affermarsi sul mercato?
Mi permetto di dire che da quest’anno diventiamo “maggiorenni” e non saremo più una startup ma una company a tutti gli effetti. A mio avviso gli strumenti governativi nazionali ed internazionali di supporto sono validi. Forse è banale dirlo, a volte c’è un po’ troppa burocrazia, ma io l’ho sempre ritenuta importante perché ci ha permesso di approfondire la nostra posizione e di validare le nostre ipotesi. Diciamo che lo sforzo richiesto aiuta a consolidare il progetto e costringe a riflettere più volte su di esso. Lo dico perché spesso succede di avere delle buone intuizioni, purtroppo non sufficientemente mature per poterle definire business. Sposterei più che altro il focus su un’altra questione: quella della cultura imprenditoriale.

Il tessuto imprenditoriale italiano è per lo più costituito da piccole e medie imprese, il più delle volte famigliari. Questo ha almeno due implicazioni: si tende ad una crescita asintotica, non esponenziale. L’obiettivo non è, per esempio, tendere alla quotazione o ad operazioni straordinarie quali l’M&A, ma arrivare “a regime”, condizione in cui l’azienda funziona e non sente il bisogno di crescere. La seconda implicazione, che è strettamente collegata alla prima, è lo sbilanciamento in termini di leva finanziaria: rispetto agli altri Paesi europei: in Italia c’è una forte propensione al ricorso al credito, mentre viene forse ancora troppo sottovaluto il capitale di rischio. Penso quindi che una più strutturata educazione finanziaria ed imprenditoriale, assieme ad un maggior coraggio imprenditoriale, possano essere una chiave di sviluppo per l’imprenditoria italiana.